Se c’è una cosa che ho imparato in anni di Social Media Marketing, è che le aziende più visibili su LinkedIn non sono quelle che investono milioni in advertising, ma quelle che hanno saputo trasformare i propri dipendenti in autentici “ambasciatori del brand”.
Nonostante quella dell’Employee Advocacy sia una strategia di comunicazione social già ampiamente rodata, le volte in cui propongo a un imprenditore di coinvolgere i dipendenti nella comunicazione aziendale su LinkedIn, il feedback che ricevo è quasi sempre lo stesso: “Lasciare che siano loro a parlare dell’azienda? Ma sei serio?”.
Una reazione comprensibile, ma che mi fa capire quanto l’idea di far raccontare l’azienda ai dipendenti sia vista più come un rischio, che come una reale opportunità.
Un vero peccato, dato che la realtà ci dimostra l’esatto contrario: le aziende che hanno scelto di farsi raccontare dai propri dipendenti, infatti, raccolgono ogni giorno i frutti di questa scelta, la quale, se operata in modo consapevole, può davvero moltiplicare la visibilità dell’azienda. E senza investire solo un centesimo in pubblicità a pagamento.
Andiamo con ordine, quindi, e vediamo perché fare Employee Advocacy è importante, specialmente su una piattaforma social professionale come LinkedIn.
Perché i dipendenti sono i migliori brand ambassador che un’azienda possa desiderare
Prima di tutto, chiariamo una cosa: “fare Employee Advocacy” non significa trasformare i propri collaboratori in “megafoni aziendali”, ma piuttosto offrire loro la possibilità di raccontare la propria esperienza in azienda, in modo autentico e coinvolgente.
La differenza tra le due modalità di comunicazione è sostanziale: se, infatti, un post pubblicato da un’azienda viene automaticamente percepito come “promozionale”, i contenuti realizzati e postati dai dipendenti godono di una fiducia e credibilità nettamente maggiori. È, in buona sostanza, la stessa differenza che passa tra l’ascoltare un venditore che racconta quanto è bello il suo prodotto e l’incontrare un vicino di casa che, invece, parla con entusiasmo del prodotto dopo averlo acquistato.
Secondo l’edizione 2024 dell’Edelman Trust Barometer, il 66% delle persone si fida più dei dipendenti, che dei CEO e dei portavoce aziendali. Piuttosto rilevante, direi.
Ma c’è di più: stando ai risultati di uno studio di Refine Labs sulle proprie risorse social, i post pubblicati dai dipendenti hanno ottenuto più del doppio delle “impression” di quelli condivisi dalla pagina LinkedIn, nonché un engagement di 5 volte superiore.
Insomma, i dati dimostrano che l’Employee Advocacy funziona. Bisogna solo avere il coraggio di adottarlo, scegliere i giusti “ambasciatori” e formarli adeguatamente.
Come trasformare i dipendenti in veri ambasciatori
Ora che abbiamo chiarito il “perché”, veniamo al “come”. Una cosa, infatti, è realizzare che l’Employee Advocacy funziona; un’altra, invece, è implementarlo in modo efficace.
Il primo e più banale errore che vedo commettere da chi approccia per la prima volta all’Employee Advocacy è quello di partire a testa bassa, senza aver prima definito una strategia. “Dai, cominciamo a parlare dell’azienda coi profili e vediamo che succede!”. Ecco, questa modalità ha le stesse probabilità di successo che ho io di diventare Papa.
Se si desidera fare le cose per bene, non si può partire dalla condivisione dei contenuti, ma bisogna prima scegliere i giusti ambassador. Non tutti i dipendenti, infatti, hanno la stessa propensione alla comunicazione sui social, né le competenze necessarie per rappresentare efficacemente (e degnamente) l’azienda su LinkedIn. È fondamentale, quindi, identificare i collaboratori più attivi digitalmente, quelli che già esprimono un forte senso di appartenenza all’azienda e che hanno una buona reputazione online.
Una volta individuato il proprio “dream team”, è necessario investire nella formazione. E qui casca l’asino, perché molte aziende credono che sia sufficiente chiedere che i post della pagina aziendale vengano ricondivisi, per ottenere risultati. In realtà, è necessario fornire linee guida chiare, esempi pratici e, soprattutto, invitare alla creazione di contenuti originali, così che si aggiungano a quelli istituzionali.
Se si salta questo passaggio, il risultato non potrà che essere una comunicazione monotonale, fatta di messaggi impersonali e incapace di attirare l’attenzione della propria nicchia di interesse. E non è certo questo ciò di cui l’azienda ha bisogno.
Gli errori da evitare e la ricerca di un equilibrio
Se pensate che l’Employee Advocacy “fatto ammodino” sia una passeggiata, devo darvi una delusione: ci sono molte più insidie di quante possiate immaginare, ma nulla che non si possa superare con un minimo di organizzazione, “testa” e buonsenso.
Il primo errore è quello di voler controllare ossessivamente i social post realizzati dai dipendenti. In passato, ho avuto a che fare con imprenditori e marketing manager che pretendevano di approvare ogni singolo contenuto, prima di pubblicarlo. Il risultato? Dopo neanche due settimane, i dipendenti avevano smesso di partecipare, in quanto il processo era diventato più macchinoso e stressante di una dichiarazione dei redditi.
Il secondo errore, invece, è l’opposto, ovvero il laissez-faire più totale. “Fate quello che volete, tanto siete adulti e responsabili”. Ecco, questa è la ricetta perfetta per ritrovarsi con un collaboratore che, lasciato totalmente libero, condivide meme discutibili o, peggio ancora, opinioni politiche controverse, associando il tutto al brand aziendale.
Nell’Employee Advocacy, la chiave del successo sta nel trovare il giusto equilibrio tra libertà e controllo, fornendo ai dipendenti un framework chiaro, ma non opprimente.
Misurare il successo: non basta contare i like!
Se è vero che l’Employee Advocacy è una strategia di comunicazione potente ed efficace, lo è altrettanto il fatto che molte aziende non sappiano valutarne l’impatto.
Limitarsi a contare like, commenti e condivisioni – ovvero le cosiddette “vanity metrics” – non è utile, perché non sono quelli i numeri che contano. I veri indicatori di successo dell’Employee Advocacy sono, piuttosto, l’aumento del traffico verso il sito aziendale, il miglioramento della brand reputation e, soprattutto, l’acquisizione di lead qualificati.
Attenzione, però: i risultati non arrivano dall’oggi al domani. L’Employee Advocacy è una strategia a lungo termine che richiede costanza, pazienza e un investimento continuo nella formazione e il supporto ai partecipanti. Quindi calma e sangue freddo.
Da dove iniziare: scegliere, formare e comunicare
Giunti al termine di questa breve guida all’Employee Advocacy applicato a LinkedIn, non ci rimane che salutarci. Prima, però, voglio lasciarvi con un ultimo suggerimento.
Se e quando deciderete di adottare questa strategia di comunicazione, iniziate con l’identificare 5-10 dipendenti che già parlino spontaneamente dell’azienda sui social media: saranno i vostri “early adopter” e vi aiuteranno a perfezionare l’iniziativa, prima di estenderla al resto del team. Create un piccolo gruppo di lavoro, organizzate incontri formativi e ascoltate i feedback. Spesso, infatti, le idee migliori arrivano dai dipendenti.
Ricordate che l’Employee Advocacy non è una medicina miracolosa, ma una strategia che richiede visione a lungo termine, quindi non aspettatevi risultati importanti prima di 9-12 mesi. Investite con costanza e metodo, e vedrete che i frutti arriveranno.
Employee Advocacy su LinkedIn: i nostri servizi
Se desideri adottare l’Employee Advocacy nella tua azienda e sei alla ricerca di un team che ti aiuti in questa impresa, scrivici a info@ammodino.it oppure compila il modulo dei contatti che trovi qui sotto: insieme analizzeremo il tuo progetto e ti seguiremo nella trasformazione dei tuoi dipendenti in veri brand ambassador.